volevo un gatto nero

da bambina avrei voluto un amico a quattro zampe.
lo avrei voluto davvero più di ogni altra cosa, compreso ovviamente mio fratello.
anzi, soprattutto più di lui.
mia mamma si ricorda ancora con raccapriccio le lunghe sessioni di piagnisteo che accompagnavano, quasi quotidianamente, il  rito giornaliero del rientro dai giardini di quartiere nei pomeriggi di bella stagione.
si andava e si tornava in truppa, numerosi bambini e relative mamme.
sciaguratamente, il percorso verso casa prevedeva il passaggio quasi obbligato davanti a un negozio di animali, le cui vetrine erano popolate da poveri cuccioli di cani e gatti, tartarughe, coniglietti, criceti e altre varie creature, più o meno pelose, più o meno pennute.
ogni santa volta, la mia amica Laura e io (più altre amiche che, occasionalmente, si univano al nostro pianto) ci fermavamo davanti alle vetrine, inscenando i soli capricci che abbiano davvero attraversato la mia infanzia.
si partiva dalla pretesa di una cane, per scendere al gatto, per abbassarsi perfino a un criceto, che in un appartamento milanese mi pareva una richiesta più che accettabile. niente.
Laura era riuscita, alla fine, a spuntarla con il roditore. io, neppure quello.
ricordo distintamente che, ad un certo punto, fra i miei preferiti era comparso per l'appunto un gattino nero. occhi gialli, pelo arruffato e aria monella.
era rimasto in vetrina decisamente più a lungo dei suoi compagni candidi o tigrati. evidentemente, la sua pretesa sinistra fama ne ostacolava l'accoglienza.
io, che di sinistre fame non avevo la minima idea, avevo invece interpretato la sua sventura come un segno a me favorevole: il gattino era, evidentemente, destinato a me e nessuno lo sceglieva perché io sola avrei potuto averlo.
niente, mia mamma era insensibile perfino al destino. così, un giorno, il gattino sparì dalla vetrina, lasciandomi inconsolabile per diverso tempo.
una volta sposata, trasferita nelle campagne in grande casa con giardino, oltre al necessario cane abbiamo deciso di tenere anche un gatto.
l'ho interpretata come un'occasione di redenzione nei confronti del perduto micetto della mia infanzia e ho iniziato a perorare con mio marito la causa di un gatto nero.
niente. mio marito, ma soprattutto mio suocero, erano afflitti da grave superstizione, per cui non avrebbero mai messo piede in una casa infestata da gatto nero.
difatti, poco dopo mio suocero (forse per scongiurare mie infauste iniziative) è comparso con un  meraviglioso candido gattino da Mulino Bianco, tutto per noi.
inutile dire che l'ho subito adorato, ma non era quello che avrei voluto.

ecco. ora che ci penso,  i gatti neri sono stati l'unica forma di ribellione della mia infanzia e, cosa ancora più grave, anche della mia età adulta.
anzi, per la precisione, sono stati l'unico pallido tentativo di ribellione. mai andato a buon fine.
per il resto, io che passo per una persona forte, dotata di carattere e personalità (forse a questo punto solo perché, non di rado, esprimo con una certa veemenza le mie opinioni) non sono mai davvero stata capace di imporre i  miei desideri o, peggio ancora, la mia volontà, nei casi in cui non coincidevano con quelli di chi mi stava intorno.
viceversa, ho quasi sempre ceduto, in nome di un principio di ragionevolezza non meglio definita, di cui mia madre ha sempre fatto e fa tuttora uno stile di vita.
ho sempre inconsapevolmente cercato di essere quella che gli altri si aspettano che sia, evitando di infastidirli anche solo per la presenza di un gatto nero in casa mia.
d'altra parte, ho sempre avuto la sensazione che - come ai tempi del gattino in vetrina- i miei desideri non siano altro che capricci, come tali non particolarmente meritevoli di tutela e accoglimento.
si può vivere senza un cane o un gatto, si può vivere con un gatto bianco anziché con uno nero, e così via.
ma, di così via in così via, vivere la vita degli altri è molto più che un rischio.
forse è per questo che, nei limiti del possibile, mi sono quasi imposta di dare diverse volte ascolto a desideri delle mie bambine che, pur non essendo follie, in casa mia non sarebbero stati minimamente recepiti. 
altro, però, non ho imparato.
il resto rimane un capriccio, ai miei occhi, quando non necessario e quando intacca anche solo minimamente la sfera altrui.
il resto, quando affiora, viene inesorabilmente e scioccamente ricacciato in un angolo e rinviato a quando un domani, forse, mi sentirò libera di fare davvero i capricci.


Commenti

  1. Da bambina avrei voluto un cane E un gatto, ma non ho mai fatto malattie nè per l'uno nè per l'altro. Da adulta ho sempre pensato che mai nella vita avrei avuto un animale , men che meno un animale in casa; adesso ho due gatte e, giuro, fanno parte della famiglia... mah, strane vie percorre il destino!
    By the way, derubricare a capriccio un desiderio infantile è stata per secoli la linea guida principale di ogni metodo educativo che si rispettasse: annichilire, domare, sottomettere, punire sono forse definizioni più adatte a quello che i genitori (non i nostri in particolare, magari. I loro, però, sì, almeno nel caso di mia mamma) facevano, credendo di educare. L'effetto è evidente: crediamo che i nostri desideri, a volte le nostre stesse esigenze, siano capricci. Siamo talmente intrise di questa idea che, talvolta, rimandiamo visite mediche finchè non è quasi troppo tardi, seguiamo mariti nei loro, peraltro legittimi, progetti di vita, trascurando di attribuire alle nostre aspirazioni pari dignità, arriviamo talvolta a rivendicare razionalmente il principio del "chi sporca, pulisce", sentendoci nel contempo grate per l'aiuto che riceviamo nelle faccende domestiche.
    C'è però una crescita, un'evoluzione forse, che accompagna le famiglie con il passare delle generazioni: le generazioni recenti studiano più di quelle passate, ad esempio e si accolgono con spontaneità e senza fratture i cambiamenti etici che si verificano nella società. Questo porta, fra le altre cose, a portare un maggiore rispetto alla "persona" che non a pretenderlo dal "figlio".
    Aspetto di vedere dove ci porterà questo nostro approccio, sono proprio curiosa!

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    1. le nostre madri sono di un'altra generazione. noi dovremmo, invece, appartenere a una che già sa affrancarsi da sudditanze emotive. che non significa vivere da egoisti o in solitudine, ma semplicemente riconoscere pari dignità alle proprie aspirazioni o ai propri desideri rispetto a quelli degli altri, armonizzandoli.
      temo invece che non tutti imparino o, comunque, che non imparino abbastanza rapidamente da impostare la propria vita in modo soddisfacente.
      oppure, la sudditanza emotiva è solo un comodo mantello sotto cui nascondere proprie carenze.

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    2. Si impara un po' alla volta; a questo punto io mi accontento di riuscire a insegnare a Matilde quoello che, evidentemente, non ho imparato bene.

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